IL BELLUNESE NELL’ETA’ DEL FERRO
a cura di Alexia Nascimbene
In termini cronologici l'Età del ferro è quel periodo che si fa iniziare con il IX sec. a. C., allorché nell'intero territorio italiano diversi popoli danno vita ad esperienze culturali autonome e si profilano quelle divisioni regionali che poi l'ordinamento romano sancirà e che caratterizzeranno l'Italia in età storica. Tali culture, ancora mancanti di una produzione letteraria scritta, vengono definite protostoriche. Nell'Italia settentrionale i Veneti antichi costituiscono un caso particolare; la loro cultura si sviluppò nel territorio della X Regio romana - comprendente non solo il Veneto, ma anche la Venezia Giulia; fin dall'inizio essi rappresentano una compagine etnicoculturale ben definita, come risulta chiaramente sia dalle numerose fonti antiche che dalla semplice constatazione che né Etruschi né Celti considerarono il Veneto come territorio da occupare e i Veneti genti da sopraffare. Per queste caratteristiche e per l'abbondanza di documentazione di cui disponiamo (tradizione indiretta e documenti d’archivio) i Veneti sono in certo modo assimilabili agli Etruschi: non solo proprio da loro recepirono l'alfabeto e l'uso della scrittura, ma come loro non produssero una letteratura originale; e la conoscenza che noi ne abbiamo ha come fonte soprattutto l'archeologia.
Sul conto dei Veneti disponiamo di un certo numero di testimonianze indirette, di autori greci e latini che ci tramandano il nome etnico e preziose informazioni su questo popolo e sul territorio di pertinenza.
I CONFINI
In tutta la tradizione antica risultano ben precisi i confini settentrionale e meridionale in quanto definiti da macroscopiche linee di demarcazione fisica: il PO e le ALPI. Più incerti e sfumati invece i confini occidentale ed orientale, soggetti ad oscillazioni di tipo storico -politico (citando De Marinis 1998: dal IX al VI sec. a.C. il confine occidentale corre lungo il corso del Mincio per ritirarsi successivamente in modo progressivo verso l'Adige; nel V sec a.C. Oppeano è l'avamposto occidentale del mondo veneto; riguardo al confine orientale, tra Livenza, Tagliamento e Isonzo si apriva un’area ambigua di popolamento tra Veneti e Carni; forse il territorio veneto arrivava semplicemente fino al Timavo, dove secondo le fonti sorgeva un santuario a Diomede e al di là del quale iniziava il territorio degli Histri). Si tratta di un territorio estremamente vario da un punto di vista geomorfologico ed ambientale.
Nel Bellunese, si riscontrano testimonianze protostoriche relative a necropoli, ad abitati e a luoghi di culto. Oltre che a Mel, numerosi rinvenimenti si addensano nelle immediate adiacenze di Belluno, nell'Alpago e lungo l'alto corso del Piave: evidenziamo in particolare i rinvenimenti del Cadore, a Lagole, ove sorse un importante luogo di culto, ormai riconosciuto secondo solo a quello atestino della dea Reitia; a Valle anch’esso probabilmente sede di un santuario; a Pieve, Pozzale, Vallesella e Lozzo.
Agli inizi dell'VIII sec. a.C. in pianura nascono i centri egemoni di Este e Padova che sembra attuino fin dagli inizi una sorta di spartizione territoriale stabilendo la loro influenza su percorsi vitali in grado di garantire i contatti; tali percorsi sono i fiumi Adige e Piave che rappresentavano le vie verso il Nord; Este controllava l'asse atesino, Padova quello plavense. Al Nord esistevano le zone minerarie e le saline del Salisburghese (cultura di HalIstatt - importanza del sale nella conservazione degli alimenti).
La dinamica dei centri egemoni e dell'alta pianura costituiscono i presupposti per l'occupazione stabile della valle del Piave, ove si determinerà in seno alla cultura dei Veneti antichi, una facies caratteristica, individuata già negli anni '70 da Giulia Fogolari e definita 'alpina' o 'plavense'.
In questi ultimi anni, le indagini di scavo e i conseguenti studi sulle evidenze restituite dall'area veneto-orientale, hanno notevolmente ampliato le nostre conoscenze; essi consentono inoltre di comprendere meglio il quadro delle testimonianze della Valle del Piave ove si riscontra un notevole incremento tra la seconda metà del VII e la metà del VI sec. a.C.
Ad un riassetto territoriale legato allo sviluppo dei centri protourbani vanno collegati da un lato la nascita del polo lagunare di Altino (che trova le sue motivazioni storiche ed economico-politiche nel quadro più ampio delle dinamiche adriatiche) dall'altro la progressiva occupazione stabile della valle del Piave media e alta (ambito cadorino, con il sito di Lozzo), asse nevralgico per il contatto con il mondo metallifero e con il mercato hallstattiano, oltre che per approvvigionamenti locali di legname, per l'allevamento e la pastorizia. La prima presenza nella media valle del Piave (inizi VIII sec. a.C.) si riscontra a Mel, postazione strategica di controllo.
MEL - La necropoli -
In seguito ad una serie di rinvenimenti sporadici, localizzati in una zona ai piedi del colle su cui sorge l'abitato attuale e in cui sì intendeva costruire l'asilo parrocchiale, la Soprintendenza diede inizio nel 1958 ad una serie di campagne di scavo che portarono alla scoperta di una necropoli ad incinerazione e che si conclusero nel 1964. Si può ben dire che per quegli anni sia stato uno scavo d'avanguardia, condotto con rigore scientifico sotto la direzione di G. Fogolari e realizzato da G. B. Frescura che registrò ogni cosa in accurati giornali di scavo risultati preziosissimi per la ricostruzione dei siti tombali e completi di osservazioni e disegni.
Furono scoperte circa ottanta tombe, per lo più disposte in modo irregolare. Erano del tipo a cassetta: di forma quadrangolare o poligonale, costituite da lastre di arenaria locale, contenevano al loro interno i resti del defunto, deposti entro un vaso ossuario (in ceramica o di bronzo), o in alcuni casi direttamente sul fondo della cassetta, accompagnati da elementi di corredo personale (fibule, spilloni, collane, anellí, braccialetti, .. ..), utensili, vasellame accessorio. L'analisi dei materiali indica che la necropoli fu in uso dalla fine del IX-inizi dell'VIII sec. a. C. sino al V sec. a. C.
Nel 1962 furono messi in luce sette recinti, localizzati nella fascia meridionale della necropoli. Costituiti da lastre di arenaria infisse verticalmente nel terreno, dotati di un ingresso orientato a Sud individuato da lastre 'stipiti' e di una soglia, contenevano un numero di cassette variabile e in alcuni casi inutilizzate. A lungo i 'circoli' di Mel sono stati ritenuti monumenti del tutto isolati in Veneto. La questione si è poi chiarita, stabilendo come in realtà non si tratti di circoli, ma di tumuli: le lastre costituivano un recinto originariamente riempito di materiale litico. Il tumulo è una struttura sepolcrale in uso durante il 1° Millennio presso diverse popolazioni in Italia, dove i più celebri e più monumentali sono quelli d'Etruria, e in Europa centrale nella zona hallstattiana, certo con una notevole diversità di realizzazione, variabilità dimensionale e strutturale.
Tumuli simili sono stati riconosciuti anche nelle necropoli venete di Este e di Padova (necropoli di Via Tiepolo, ove i recinti erano costituiti da staccionate di legno) ed è probabile che anche a Caverzano alcune tombe, per le quali nelle relazioni di scavo si annota l'accumulo di pietre di dimensioni via via maggiori sulla lastra di copertura, fossero provviste di struttura tumulare, in questo caso individuale.
MEL - L'abitato -
Fino al 1995 non si sapeva nulla dell'abitato di Mel e della sua ubicazione che già di per sé costituisce un dato parlante. La struttura era in gran parte distrutta dai lavori agricoli ancora di parecchi anni fa, ma sono stati trovati, oltre a tre brevi tratti di muro, una canaletta di drenaggio che si collegava con una vaschetta in lastre di pietra, tanto che in un primo momento gli archeologi avevano pensato di trovarsi di fronte ad una tomba. Dentro la cassetta c'era un grande dolio di ceramica, un grande contenitore di derrate alimentari vuoto, ma la cassetta era comunicante con la canaletta di drenaggio e quindi questo voleva dire che c'era un impianto idrico e in associazione con questa situazione sono state trovate delle scorie metalliche. Tutto questo insieme ci fa pesare che ci troviamo di fronte ad una casa laboratorio: probabilmente in questa casetta veniva lavorato il bronzo.
Questo ritrovamento ha permesso di localizzare la posizione del villaggio rispetto alla necropoli e questo è già molto perché per altro del Bellunese noi conosciamo le necropoli e non i villaggi, un po' diversamente da quello che è il rapporto degli abitati d'altura vicentini e veronesi, prealpini occidentali, dove invece abbiamo una sessantina di villaggi conosciuti con le strutture abitative la tipologia edilizia delle case, il materiale di uso quotidiano, ma non le necropoli di cui abbiamo dati sporadici molto scarsi, cosa che ci mette in difficoltà per interpretare correttamente la complessità dei sistemi territoriali.
Un altro dato fondamentale che ha fornito il ritrovamento dell'abitazione dì Mel è quello sulla tipologia edilizia adottata in queste zone: è una tipologia di casa o di casa - laboratorio molto simile a quella degli abitati vicentini o veronesi che a loro volta usano le case utilizzate dai Reti: case seminterrate con muri a secco in pietra. Diversamente dagli abitati di pianura che usano materiale deperibile per le abitazioni, qui troviamo la pietra e questo ci porta ad avere una notevole difformità documentaria. Le case di città come Este, Padova, Oderzo, Vicenza, Concordia, che dalla piena età del Ferro sono dei veri e propri centri urbani dato che hanno l'ortogonalità dell'impianto urbanistico fra strade, canali di scolo e case, hanno delle case costruite con legno, argilla ecc. per cui di queste case che in alcuni casi forse potevano essere assimilate ai palazzi di cui si parla per l'Etruria, ci rimane pochissimo. Dei villaggi di altura che certamente non erano città ed avevano un'estensione limitata abbiamo la pianta delle case e le superfici e in alcuni casi possiamo anche ipotizzare delle tramezzature, l'articolazione interna dello spazio, la possibile ricostruzione del tetto. Delle case di pianura ci rimangono invece solo piani pavimentali e buche di palo che ci danno gli allineamenti, ma non molto dì più. La casa di Mel assomiglia quindi alle case degli abitati veneti d'altura e quindi per mediazione alle case dei Reti.
Uno dei rinvenimenti più significativi per il flusso di traffici che attesta è il rinvenimento della chiave del monte Nenz di Trichiana (1992-93). Su segnalazione è stata infatti rinvenuta una chiave di bronzo databile con una certa sicurezza alla seconda metà del VII sec. a.C., in un contesto che ci fa capire come la sua destinazione fosse votiva, cultuale. La chiave nell'antichità è infatti spesso tra i materiali legati ai santuari proprio per il suo significato simbolico e come dono e offerta votiva- La chiave di Trichiana è un oggetto di grande prestigio, sia per la grandezza e la quantità di metallo impiegata, sia perché non è un oggetto locale ma viene sicuramente dall'area a Nord delle Alpi, halstattiana. Questo oggetto ha almeno due significati importanti:
1. testimonia una provenienza sicura e quindi conferma il fatto che la valle del Piave veicola e convoglia su di sé materiali provenienti da ambiti diversi; quest'oggetto apre un capitolo nuovo sul valore cultuale di questa valle, di come cioè gli antichi tendessero a localizzare lungo questa vallata alcuni luoghi di particolare importanza dal punto di vista religioso.
2. Tra il VII e il VI sec. a.C. si assiste ad un fiorire di insediamenti e presenze e questo certamente corrisponde al fatto che centri di pianura, Este e Padova in particolare, hanno una dimensione ormai pienamente e politicamente urbana e che quindi il controllo territoriale e dei traffici commerciali diventa per loro un fattore vitale.
CAVERZANO
Caverzano è attualmente una zona poco nota per la sua storia archeologica, il che contrasta con il ruolo importante che rivestì nella seconda metà del secolo scorso, quando, in un fervore di indagini sul terreno e di studi, la civiltà dei Veneti antichi, da mito e leggenda, divenne una realtà archeologicamente tangibile e definita.
Quando nel 1883 Gherardo Ghirardini, soprintendente alle Antichità del Veneto, compì la prima ricognizione degli scavi realizzati o in corso nella regione e del materiale recuperato distinse quattro gruppi archeologici: uno trevigiano, uno euganeo, uno cadorino ed uno (il primo nel suo elenco ed oggetto della prima relazione apparsa in quell'anno in Notizie e scavi dell'Antichità) bellunese, costituito dalla necropoli di Caverzano, l'unica zona ad aver restituito, sino ad allora, materiale dell'età del ferro.
Il toponimo "Caverzano" individua un'area piuttosto estesa nell'ambito della quale i rinvenimenti archeologici risultano concentrati sulla sinistra del torrente Ardo nella fascia pedemontana, compresa entro i limiti del podere 'La Vigna’ e più a nord, lungo le pendici del Serva, nelle località Pian Domeneghe, Limade e Col Fiorito; sulla destra dello stesso torrente interessano solo il Colle di Castellin sopra Fisterre.
Generiche notizie riferiscono di occasionali rinvenimenti verificatisi nei decenni iniziali del secolo scorso senza alcuna possibilità di conoscere gli oggetti e stabilirne l'antichità. La storia delle scoperte di materiale sicuramente attribuibile all'età del ferro in questo territorio inizia nel 1865, quando, nel corso di escavazioni a fini agricoli, nelle località Masiera e Font, incluse nel podere La Vigna, furono rinvenute alcune tombe che, oggetto d'interesse da parte di due studiosi locali, furono da questi descritte e dalle quali furono recuperati alcuni oggetti, consegnati al Museo Civico di Belluno, da poco allestito e diretto dall'abate F. Pellegrini, dove sono oggi esposti.
Nel 1878 si attuò la prima e l'unica campagna di scavo ufficiale, diretta dall'ispettore in carica per la provincia di Belluno 0. Monti in località Masiera. Dopo di allora altre ricerche furono svolte privatamente.
Questa serie di scavi portò al rinvenimento di una grande quantità di materiali, solo parzialmente acquisiti al Museo Civico di Belluno. Una parte consistente, e solo approssimativamente valutabile, è andata infatti dispersa: basti pensare che tutti i corredi recuperati nel 1884 in loc. Font dal proprietario del terreno, presi in visione descritti dal Monti, furono venduti, senza la possibilità di conoscerne la destinazione. Tra questi c'erano dei pezzi di grande interesse, di cui possiamo farci solo un'idea grazie alle riproduzioni grafiche di quattro fermagli di cintura appartenenti a quel lotto realizzati da F. Pellegrini e pubblicati da P. Orsi. Oltre a quello conservato al Museo Civico di Belluno, altro materiale si trova attualmente al Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico 'T. Pigorini" di Roma, donato al Pigorini stesso nel 1877.
Lo studio della documentazione d'archivio e del materiale archeologico permette alcune considerazioni sulla topografia e il popolamento del territorio in questione durante l'età del ferro.
Si distinguono nel territorio dì Caverzano tre principali nuclei di tombe, posizionati nelle immediate vicinanze del corso dell'Ardo e i cui periodi di utilizzo si sovrappongono: l'analisi del materiale ne rivela una frequentazione compresa tra la fine del VII e il V sec. a. C. Non si tratta perciò di un'unica necropoli, né delle testimonianze di un utilizzo, con una stessa funzione, di aree differenti in fasi cronologiche successive una all'altra.
Due raggruppamenti si trovano sulla sinistra del torrente Ardo. Il primo (nucleo di Font), situato sul declivio che dalla piana dell'Oltrardo scende al letto del torrente, conta un numero approssimativo di ventisette tombe a cassetta. L'altro (Masiera) leggermente spostato a nord-est, nel punto in cui iniziano a rilevarsi le prime pendici del Monte Serva ne conta quindici e presenta una ben determinata organizzazione dello spazio: due allineamenti paralleli aventi direzione Est-Ovest e inframmezzati da un tratto di strada selciata.. Nelle une e nelle altre la tipologia dei materiali e i rituali funerari attestati sono i medesimi.
Oltre a questi, nel comprensorio, sempre sulla sinistra dell'Ardo, si posizionano ritrovamenti isolati. Così, una tomba fu trovata dinanzi alla residenza della "Vigna", nel piano situato tra Font e Masiera, e più a nord altre tombe sono state trovate nelle località Col Fiorito e Limade. La mancanza di accertamenti non consente di stabilire se l'isolamento di queste sepolture risponda ad una situazione reale oppure sia semplicemente conseguenza di un vuoto di documentazione.
La situazione così evidenziata induce a pensare che il popolamento del territorio di Caverzano fosse strutturato in nuclei insediativi di limitata densità e tra loro vicini, ma ciascuno funzionalmente indipendente e dotato di una propria area cimiteriale. In questo panorama, Castellin di Fisterre sembra rappresentare una particolarità.
Si distingue innanzitutto per aver restituito l'unico nucleo di tombe posizionato sulla destra dell' Ardo. Il torrente lo separa dalla località Font a cui è affrontato e a cui corrisponde da un punto di vista altimetrico.
Va inoltre sottolineato il numero limitato delle sepolture, la loro posizione raccolta, la presenza di indicatori di status come il coltello con manico a flabello e soprattutto il fodero con decorazione a figure zoomorfe in rilievo. Il quadro così delineato fa pensare ad una sorta di "tomba di famiglia”, ad un'area riservata alla deposizione di individui legati da vincoli parentali e di particolare rilievo sociale. L'isolamento in cui si trova sembra esprimere una precisa intenzionalità, la volontà di un gruppo, di un'élite di distinguersi affermando forse in questo modo il proprio dominio su di un'area di cui nessuno sino ad allora aveva disposto. Non è forse troppo azzardato pensare cioè ad un fenomeno di micro-colonizzazione.
Un'attenzione particolare merita la tomba scavata a Limade nel 1995. Innanzi tutto perché il suo rinvenimento e l'importanza dei materiali del corredo ha fatto riscoprire l'importante contributo che Caverzano offre alla conoscenza del popolamento e degli aspetti culturali del Bellunese nell'età del ferro, in secondo luogo perché, scavata con rigore scientifico essa è stata in grado di fornire numerose informazioni sulle associazioni e su aspetti del rituale funerario. Segnalata dall'Associazione Amici del Museo di Belluno e scavata in collaborazione con essa da parte della Soprintendenza Archeologica per il Veneto, la tomba era del tipo a cassetta e risultava danneggiata dai fenomeni di scivolamento che interessano un pendio collinare, al pari di quelle rinvenute nel secolo scorso a breve distanza.
Un lebete bronzeo intenzionalmente privato dei doppi attacchi fungeva da ossuario e si trovava al centro della cassetta; esso conteneva, avvolti in un panno, le ossa combuste in frammenti e un corredo personale costituito da fibule di tipo Certosa, una piastrina di ferro con decorazione incisa ed un gancio, entrambi elementi di cintura.
Il corredo era completato da oggetti disposti con ordine all'interno della cassetta, ai quali era probabilmente affidato il compito di simboleggiare il ruolo e la posizione socio-economica dell'individuo nell'ambito della comunità di appartenenza. Sotto il lebete era adagiato il falcetto, mentre sul suo orlo era posata l'ascia ad alette bilaterali. Lungo un lato della cassetta erano deposti, appaiati, il punteruolo di ferro, la cuspide di giavellotto, il coltello a manico gammato, il secondo coltello ed il fodero.
I numerosi manufatti bronzei denotano una prestigiosa sepoltura maschile. La presenza di armi costituisce una singolarità nel panorama veneto dell'età del ferro, in cui anche nelle tombe emergenti, si riflette un rituale che mai manifesta l'intenzionalità di sottolineare il ruolo guerriero dell'individuo.
Merita una nota di rilievo la presenza di un falcetto, strumento non altrimenti attestato in contesti tombali dell'area veneta e per il quale, come per il lebete e l'ascia, i confronti si individuano tra il coevo materiale del distretto prealpino e alpino centro-orientale.
Singolare è anche il coltello a manico gammato che, per quanto abbia generici confronti con esemplari patavini, trova l'unica puntuale corrispondenza con il coltello rinvenuto a Caverzano nel 1878. Pertanto non è escluso si possa trattare di una produzione originale della Val Belluna.Il complesso è datato ai primi decenni del V' secolo a. C.
LAGOLE
Tra 1951 e 1956 indagine archeologica di Lagole di Calalzo, diretta da G. Fogolari e condotta da G. B. Frescura.
Dalla metà del VI sec. a. C., il luogo è frequentato come santuario, per la celebrazione di un culto verosimilmente legato alle acque termali che vi sgorgano in sorgenti naturali. Ancor più insolite in un ambiente montano, queste dovettero suscitare lo stupore di quelle genti che attribuirono loro poteri sananti e che vi venerarono una divinità a noi nota dal gran numero di iscrizioni votive in lingua venetica che Lagole ha restituito e che costituiscono il più numeroso nucleo di iscrizioni in questa lingua, dopo quello rinvenuto ad Este. La divinità venerata è denominata TrumusiatelTribusiate e spesso è menzionata con l'epiteto di Sainate, già noto come epiteto della dea atestina Rethia. E' ancora dubbio se si tratti di una divinità femminile oppure maschile: recentemente la Marinetti ha formulato una nuova interpretazione: la radice -mus è legata ad acque ferme, -tr al numero 3, anche nel senso di moltiplicativo per rendere l'idea della quantità indeterminata>divinità delle molte acque. Che si possa trattare di una divinità maschile è d'altro canto suggerito dalla carattere eminentemente maschile del santuario (maschili i nomi dei dedicanti, in maggioranza maschili i bronzetti,..) e il fatto che in epoca romana il santuario continuò ad essere frequentato (sicuramente sino al II, ma non mancano monete di IV sec. d. C.) per il culto del dio Apollo.
Non legato ad un centro urbano, Lagole è un santuario territoriale, un santuario di confine: posto in un punto strategico lungo la valle del Piave costituiva il punto di convergenza e di transito per le genti (mercanti, metallurghi, pastori) provenienti da Sud, da Nord (l’oltralpe della cultura hallstattiana prima, di La Tène poi), dal Trentino e dal settore Nord-orientale. Il luogo ha restituito oltre 700 pezzi riconducibili ad alcune tipologie :
- numerosi bronzetti, quasi esclusivamente maschili (nella posizione dell'offerente, oppure con in pugno una lancia, in posizione di riposo, con elmo e spada di tipo celtico, a piedi oppure a cavallo). In alcuni casi questi, offerti in dono alla divinità portano incisa un'iscrizione votiva;
- lamine rettangolari con iscrizione che corre tutt'intorno e talvolta con campo figurato;
- armi (spade, lance), elmi di tipo celtico; fibule di schema La Tène;
- oggetti testimonianti l'importanza che nel culto spettava al sacrificio, quali coltelli, un raschiatoio, spiedi, alari, forchettoni. Il sacrificio di animali spiega anche la quantità di ossa rinvenute, per lo più di pecora e di capra, alcune delle quali presentavano evidenti segni di macellazione. Gli strumenti impiegati per la macellazione, la scuoiatura, la cottura delle carni una volta utilizzati per il sacrificio venivano defunzionalizzati, quindi, con l’aggiunta di una iscrizione votiva consacrati alla divinità. Analoga sorte spettava anche ad altri oggetti legati al culto, quali
- Simpula, ossia mestoli (forma peculiare del mondo etrusco), che costituiscono un nucleo molto consistente tra il materiale di Lagole. Essi venivano verosimilmente utilizzati nelle libagioni e nelle offerte di acqua, quindi, sconnesso dalla vaschetta il lungo manico ed incisa su di questo una dedica, venivano offerti alla divinità. Un confronto utile è offerto da alcune scene dell'arte delle situle (cfr. Situla di San Zeno e situla di Vace).
Il santuario di Lagole esprime in modo emblematico una situazione che è in realtà propria dell'intero territorio provinciale, un territorio di confine aperto fin dalla prima età del ferro a rapporti interetnici tangibili nella cultura materiale (abbigliamento, ornamento, vasellame), come in quella 'spirituale' (che traspare ad esempio da particolari aspetti del rituale funerario) delle genti in esso stanziate.
Lebete di bronzo, privato dei manici
AURONZO di Cadore
In loc. Monte Calvario nel marzo del 2000 furono fortuitamente recuperati reperti bronzei a carattere votivo di età preromana: simpula, lamine iscritte, dischi figurati. Pertanto la Soprintendenza ai Beni Archeologici del Veneto nell'estate del 2001 avviò una campagna regolare di scavo sotto la direzione della dott.ssa Giovanna Gangemi. Sono così state messe in luce strutture murarie di età romana riferibili a un luogo di culto con frequentazione dalla fine del II sec. a.C. al IV sec. d.C.. Nei livelli più antichi è significativa la ricorrenza in associazione di oggetti votivi di età preromana (manici di simpula iscritti) e di età romana (monete). La loc. è situata a 928 metri s.l.m., a est nord est rispetto all'abitato attuale. a controllo di un tracciato viario che da Calalzo, e dagli insediamenti individuati a Valle, Pieve, Domegge, Lozzo, porta alla valle dell'Ansiei sulla via del Comelico fino alla valle della Gail, dove nella stipe di Gurina sono attestati oggetti votivi affini a quelli rinvenuti a Lagole e ad Auronzo.
Quanto appena letto costituisce la traccia della conferenza tenuta ad Agordo il 30 novembre 2002 dalla dott.ssa Alexia Nascimbene Conservatrice del Museo di Montecchio Maggiore,Vicenza
A chi volesse approfondire l’argomento, viene consigliata la seguente essenziale bibliografia:
BIANCHIN CITTON E., GAMBACURTA G. e RUTA SERAFINI A. (a cura di),... “Presso l’Adige ridente". Recenti rinvenimenti archeologici da Este e Montagnana. Padova.
BONOMI S. e RUTA SERAFINI A. 1994 - Una "Chiave di Penelope " dal territorio bellunese. In
Quaderni di Archeologia del Veneto, X.
BONOMI S., RUTA SERAFINI A. e SERAFINI M. 1995 . Restituzioni Opere Restaurate,
Catalogo Della Mostra, Banco Ambrosiano Veneto: 18-23. Vicenza.(…...bibliografia)
BRUSTIA M. e DE PASQUAL M. G. (a cura di) 1996 - Museo Civico Archeologico di Mel. Comune di Mel, Soprintendenza Archeologica per il Veneto.
CALZAVARA L. 1984 - La zona pedemontana tra Brenta e Piave e il Cadore. In ‘Il Veneto nell'antichità’.
CALZAVARA CAPUIS L. e RUTA SERAFINI A.. 1987 - Per un aggiornamento della problematica del celtismo nel Veneto. In Celti ed Etruschi, Bologna.
CAPUIS L. 1993 - I Veneti, società e cultura di un popolo dell'Italia preromana. Milano.
CAV 1988 - Carta Archeologica del Veneto, a cura di L. Capuis, G. Leonardi, S. Pesavento Mattioli. Modena.
CHIECO BIANCHI A. M. e TOMBOLANI M. 1988 –
I Paleoveneti. Catalogo della mostra.
GAMBACURTA G., 1999 - Considerazioni sul ruolo della Valle del Piave: aspetti culturali e cultuali, In Protostoria e storia del 'Venetorum angulus’: 437-452. Atti del XX Congresso di Studi Etruschi e Italici (16-19 ottobre 1996). Roma.
GHIRARDINI G. 1883, in Notizie e Scavi dell’ Antichità 1883: 27-43.
PELLEGRINI G. B. 1991 - Il museo cadorino e il Cadore preromano e romano. Pieve di Cadore.
La protostoria tra Sile e Tagliamento. Antiche genti tra Veneto e Friuli, catalogo della mostra. Padova 1996.
PERONI R., L'Italia alle soglie della storia. Bari 1996.
RUTA SERAFINI A. 1996 - Nuovi restauri di armi venete. In Mélanges de l'Ecole Francaise de Rome, 108: 631-640.