La seguente presentazione di Giulio Andrea Pirona, costituisce la premessa al testo di Michele Leicht, che tratta delle conoscenze di fine ‘800 sull’Età del Bronzo nel Bellunese .
Anche questo scritto, come quello già proposto nel Notiziario ARCA n° 27, sempre di mano del Leicht, è tratto dal volume
‘I PALEOVENETI ALPINI’,
Ed. Atesia, Bologna, 1976.
Gli avanzi della primitiva industria umana furono dapprincipio raccolti come oggetti di semplice curiosità, come gli avanzi organici fossili erano dai più antichi raccoglitori creduti scherzi della natura. Ma come questi, quando per il progresso delle scienze naturali furono studiati con più sana critica, divennero uno dei più solidi fondamenti della scienza geologica, somministrandoci irrefragabili argomenti per giudicare delle varie fasi che subì il nostro pianeta e delle varie condizioni fisiche e climatologiche in cui vissero quelle piante e quegli animali, cosi gli avanzi della primitiva industria umana vanno diventando già nelle mani degli scienziati il più prezioso documento per risalire alle origini dei popoli, e per studiare il progresso della umana civiltà.
Se non che Ie prime scoperte di codesti avanzi della umana industria datano da non molti anni, e quantunque le ricerche vengono continuate con un’attività quasi febbrile in ogni punto del mondo incivilito, pure essendo quelle, il più delle volte, dovute al caso, siamo ben lontani ancora dall’avere raccolto un tal numero di fatti che permetta di gettare le basi di un solido edifizio scientifico. Perciò paleoetnologi ed antropologi si riuniscono in congressi per comunicarsi a vicenda i proprii studj e per discutete i modi di meglio dirigere le ricerche; e l’associazione, come in tutto, porterà anche in questi studj, in questo ricerche, più rapidi e più proficui effetti. Già il primo congresso ha reso possibile uno studio comparativo di questi oggetti, poichè nel congresso secondo, che si tenne in Bologna lo scorso autunno, il sig. Haus-Hildebrand del Museo di Stoccolma, presentò gl’ intervenuti di un prezioso suo scritto in cui raffronta alcune fibule di bronzo e le classifica a seconda della forma e del particolare congegno, il quale scritto è il precursore di un lavoro di maggior lena sulla civiltà umana dell’epoca del Bronzo cui attende il dotto svedese.
Il sig. M. Leicht, appassionato pegli studj comparativi, come ha mostrato in varii lavori che l’Istituto ha giudicato degni di essere accolti ne’ suoi Atti, essendo Procuratore del Re a Belluno, ha avuto la fortuna di poter assistere alla scoperta di antichissime tombe, fatta nei pressi di quella città, e di vedere molti degli oggetti che ivi ed altrove in quella provincia erano sepolti colle ossa e colle ceneri degli estinti. Intorno a quegli oggetti il Leicht pubblicò già una notizia illustrativa. Nello scritto, che oggi presenta all’Istituto, l’autore sulle tracce della citata memoria del sig. Hildebrand, raffronta alcuni di quegli oggetti con oggetti analoghi ed identici trovati in altre regioni, e ad illustrazione vi aggiunge in una tavola il disegno degli oggetti che prende in esame.
Gli avanzi di pasti della Danimarca e della Scandinavia, le terremare dell’Emilia, le stazioni lacustri della Svizzera, dell’Italia e di altre regioni hanno somministrato e somministrano ancora moltissimi oggetti delle varie età preistoriche, ma la scoperta di stazioni preistoriche nelle valli alpine italiane, e la conseguente possibilità di raffronto con le analoghe stazioni di Hallstatt e della Ungheria sono fatti di un interesse evidente.
Nello scritto vi ha qualche ravvicinamento che forse non regge ad una critica severa, vi sono dubbj proposti, che l’autore non ha la pretesa di sciogliere, ma tutto ciò nulla toglie alla importanza dei fatti posti in rilievo; e perciò credo che il nostro Istituto faccia non solo opera non disdicevole, ma utile, accogliendo nei suoi Atti anche questo lavoro dell’ operoso sig. Leicht.
Venezia, 26 febbrajo 1872.
SULLA ETA’ DEL BRONZO
NEL BELLUNESE
Note di Michele Dr. Leicht - Venezia 1872
STUDII E RAFFRONTI
L'età archeolitica, e per buona parte la neolitica, sono legate da tali vincoli di conformità, che lo studio il più accurato se rileverà qualche traccia differenziale, difficilmente potrà distinguere, se proceda piuttosto delle speciali opportunità dei materiali, anzichè da una particolare caratteristica di intelligenza o di stirpe.
É impossibiIe in questo genere di studii di procedere in qualsiasi maniera, se non si richiamano a corredo ed a controlleria, le risultanze antropologiche, e soltanto da questo mutuo sussidio della scienza può intravedersi la speranza che abbiano ad essere rischiarate tante fasi della nostra storia antica, che fino ad ora furono abbandonate alle speculazioni vertiginose della fantasia, ovvero alle induzioni fragilissime d'una critica che mancava di base.
Allorquando leggiamo delle vagabonde prime stirpi italiche, difficilmente possiamo accettare Ie conclusioni dei pervetusti critici, i quali anzichè rilevare in codesto fatto una necessità, ritenevano concordemente che questa vicenda fosse dominata da una ingiustificabile instabilità dello stirpi primitive.
Ora, degli studii più accurati ne accertarono che l’accrescersi delle popolazioni e il difetto di correlativo aumento nella produzione dei mezzi di sussistenza, conducevano la irresistibilità delle primevere, e quindi questo perenne avanzarsi delle teste di colonna, che mano a mano occupavano i territorii rimasti deserti ovvero invadevano quelli che presentassero condizioni maggiormente favorevoli.
Dobbiamo anche ritenere che dove certi materiali diventati indispensabili alla vita umana si trovavano in più ricca misura, ivi siansi condotte di preferenza quelle turbe di nuove genti, le quali da ciò ritraevano maggiori facilità al loro collocamento.
Queste condizioni si ripetono oggidì, e la umanità dal punto di vista manufatturiero, commerciale, industriale, rinnova quelle accumulazioni che una volta nei più remoti secoli procedevano dallo avvicinamento alle giaciture delle selci e di altre pietre addattabili agli utensili umani.
Si può credere che nelle epoche neolitiche siasi fatto commercio di questi prodotti e si sia costituita colla manifattura una industria; ma è facile avvisare che in questo avviamento si trovi gia il segno d’una civiltà abbastanza discosta dagli uomini delle caverne e da quegli antropofaghi, l’ esistenza dei quali non può ora più revocarsi in dubbio, anche presso di noi.
Cosi legato al suolo, l’uomo della pietra doveva nella nuova stazione ripetere le condizioni di quella che abbandonava e richiamarsi a quelle pratiche consimili, se non identiche, dalle quali la sua infanzia era stata circondata e riprodurre cogli stessi materiali i medesimi mezzi che avevano a servire agli identici scopi.
Di questi uomini, che risalivano il corso dei fiumi, che prediligevano gli anfratti della montagna e le sponde dei laghi, abbiamo raccolta quindi la legge generale dei progressivi movimenti, rimanendo escluso che abbandonassero per capriccioso istinto le avite sedi in cerca di nuova fortuna.
Non sarà quindi maraviglia per noi se i Veneti abbiano lasciato al lacus venetus dell'Alpe il loro nome, se i Reti di Arezzo, Resina, Helvia Recina abbiano disseminato il lor nome dalla Retia ampla fino alla Resia friulana, se gli Umbri siano ricordati dall'Ambroseit Carnico, se gli Aurunci abbiano ancora il loro omonimo nelle convalli bellunesi, se i Tirreni possano essere addittati da qualche denominazione territoriale contermine a Venezia, e se i Toscani abbiano omonimi paesi e cognomi nelle regioni più ardue dell'Alpe .
Dopo ciò è evidente che se avessimo completa la serie delle stazioni preistoriche italiane, avressimo un punto di partenza abbastanza concreto per formulare qualche termine cronologico, e per determinare la procedenza di queste stirpi, sciogliendo così un quesito che resta irriducibile fra gli insistenti conati degli accademici e degli studiosi.
É evidente del pari, che se in Italia vi furono delle invasioni ed immigrazioni dai valichi alpini d'occidente e di settentrione, questi devono essere posteriori a quelle sopraggiunte pei valichi orientali.
Basta conoscere un poco il corso del Danubio e quello dei suoi tributarii per ammettere, siccome indiscutibile, la tesi che ho formulata, e che, per vero dire, fu' disconosciuta da taluno fra i più colti scrittori delle cose antiche italiane.
E che la traccia delle pervetuste genti si trovi ancora alla montagna, ne lo conforta questo amore dei montanini pel loro greppo nativo, e questo abbandonare, che fanno tuttora, le attrattive ed i comodi cittadini per riposare i loro vecchi anni in mezzo alle memorie ed agli spettacoli grandiosi delle valli alpine.
Del rimanente, nello splendido libro di M. Lubbok si trova una solenne prova di quella immobilità che io accennai come intrinseca alla età della pietra, essendo che sulla superficie della terra trovinsi ancora delle popolazioni, che nel loro infimo grado di coltura usano stromenti di pietra di configurazioni quasi identiche a quelle che osservansi nelle nostre raccolte.
Seguendo questi selvaggi montani nelle loro peregrinazioni designate a questa maniera, non sarà più meraviglioso che essi possano essersi trovati in presenza delle roccie metalliche, e che quindi siano riusciti a ravvisare le utilità che da questo avrebbero potuto ricavare fabbricandone gli utensili della loro vita ordinaria.
Non avendosi traccia di genti che vivano oggidì colle arti del bronzo, arriva facile la illazione, che veramente in questa scoperta, in questo momento, si disegni il vero limite che separa la immobilità uniforme dalla multiforme e progressiva varietà, le collettività conservative, da quella individualità nelle quali prima, par gruppi di nazioni, poi per quella di popoli, indi per quelle di tribù e di famiglie, a finalmente per quella di persone andarono estrinsecandosi le meravigliose conseguenze della osservazione, della esperienza, del sacrificio di coloro che li avevano precorsi.
Se noi non accettiamo come principio assoluto questa concatenazione degli aviti coi contemporanei, a che cosa ridurremo la comparsa e la sparizione di tutte quelle genti, delle quali ora non resta più che un rudere, un fasto e talvolta un solo e dubbio nome?
L’invenzione del bronzo nei varii mezzi cha offerse all’uomo, colla duttilità e durevolezza dalla materia, venne a dischiudere altrettante nuove occasioni alla elevazione di quest’ essere che fino allora era incatenato a quella terra che lo faceva schiavo.
Così dinanzi a tale nuovo fattore della umana attività possiamo davvero credere che cominciassero a balenare i primi bagliori di qual geloso senso della libertà cui si collegano come a suprema origine tutte le successive individuazioni.
Quindi nella creazione di nuovi stromenti e nello addattamento di altri, nel perfezionamento dei dettagli, nelle pratiche di esecuzione e nello sviluppo della ornamentazione veniva facilmente a formularsi una espressione particolare alla società, alla quale dovevano servire, e veniva mano a mano a formularsi quel complesso di grandi e piccole differenze, di nuove a più utili destinazioni cha varranno all’industre critico per distinguere la origine di un oggetto da quella di un altro.
È indubbio che avendo in fra le mani una materia più suscettibile a resistere alle vicende, agli urti, al tempo, più splendida nella sua apparenza, più varia nelle sue applicazioni, l’uomo vi si attaccasse con quell’assiduità deferente che arriva a trasfondere nella materia le caratteristiche personali dell’artefice.
Certo che la individualità dell’artista non doveva arrivare ad essere un pregio, se non dopo qualche migliajo d’anni; certo la rigorosa osservanza dai nostri pregiudizii d’oggidì, delle nostre prevenzioni, delle nostre astensioni, ne ammonisce di quanto dovess’essere stata rigida a gelosa allora la manutenzione di quelle forme primeve, ma ciò che la nazione ed il popolo non consentivano ancora all’ individuo, sapevano trovar utile ai proprii interessi, ogni volta che una conformità o disformità doveva servire a definire e consacrare una alleanza od una guerra, un’amicizia od una vendetta.
I monumenti sepolcrali etruschi, alla montagna come alla pianura, sulla riva dal mare come su quella dei fiumi, addimostrano quanto abbia perdurato l’ incenerimento dei cadaveri, e come la comparsa dai falli tumulari accenni al passaggio di una corrente diversa di idee religiose e forse di una civiltà superiore.
Accettando queste osservazioni si intravede facilmente la possibilità di una classificazione dei trovamenti dell’età del Bronzo. La strada par avviarsi in mezzo alle tenebre dei tempi preistorici viene ad essere designata; ed alla curiosità ed alla carità pietosa dovrà essere sostituita, nella custodia di queste pervetuste memorie, la critica storica.
E quanto possano essere facili a ravvisarsi le differenze cha servono a costituire le caratteristiche, e pronte a congegnarsi le categorie, lo addimostrava uno degli illustri congregati di Bologna in quel dono, che per argomento di cortesia e per diffusione di scienza egli distribuiva fra i suoi colleghi.
Il signor Haus Hildebrand del Museo archeologico di Stokolma, consegnava in un piccolo fascicoletto una gemma tipografica ed un prezioso raffronto di fibule di bronzo classificate per identità di forma o di congegno.
L’autore s’affidò interamente a quella persuasione che risulta dall’ osservazione dei fatti materiali, ed a quelle irrefutabili conseguenze che sorgono dal ravvicinamento dei dati di confronto; e si ebbe la soddisfazione che questo suo saggio d’un opera sulla civiltà del Bronzo, e questo suo sistema di dimostrazione e la accennata abbondanza di materiali e la distinta intelligenza nella scelta, acuisse il desiderio di veder mantenuta la promessa e ne facesse ardente l’aspettativa.
Ciò che di più particolarmente relativo all’ Italia io v’abbia trovato, lo addimostrerò in appresso; ma non so dispensarmi dall’ accennare di volo a queste divisioni del libriccino dello scienziato Svedese, affinchè servano di illustrazione a tutto ciò che verrà quindi nel mio tema.
Le due maggiori categorie sono, delle fibule settentrionali e delle meridionali: quindi le meridionali si suddividono nei gruppi di Hallstadt, d’Ungheria, d’Italia, della Tene e d’Irlanda e del Reno.
La fibula connessa indubbiamente col sistema di vestito, viene a posarsi su quella linea di separazione che ho già prima indicata, in maniera da appartenere pel suo uso alla uniformità di un tempo, e pella sua varietà all’altro, di ricordare quelle conformità che stavano per passare, improntandosi a quelle disformità che erano il segnale del movimento ricevuto dall’umana intelligenza.
La fibula non è già quell’ oggetto di lusso che potressimo oggidì supporre, poichè la immensa quantità che se ne trova, induce a credere che con essa si facesse un fermaglio dappertutto dove il ravvicinamento dei lembi della veste diventava comodo, opportuno, necessario.
In un rozzo bassorilievo del disco di Castelvetro, si vedono queste vestimenta abbastanza distintamente, foggiate per potersi assicurare che fra esse ed i frammenti trovati nel Iago di Harlem non passasse grande differenza.
In questa stessa tavola, pubblicata dal chiarissimo Conte da Schio di Vicenza, si rileva come quella conformità di un’ epoca siasi mantenuta per buon tratto anche durante la successiva, mentre i lottatori in essa figurati perfettamente nudi e serrati alla vita da un largo cinturone, tengono nelle mani serrate a pugno, dei cilindri, che appena sortiti dalle dita si espandono un poco, e finiscono tanto al di sopra che al dissotto con due curve sferiche. Questi cilindri, dei quali l’uso é indicato per questo monumento, sono diffusi in Italia, e furono trovati numerosi nella grotta di Vulci nella necropoli di Villanova ed a Marzabotto, nonchè in altri siti, ma sempre con quel genere primitivo di ornamentazione che indica l’infanzia dell’ arte.
L’unità e la varietà affermano questo faticoso svincolarsi dell’ uomo dai legami del passato, e questo lento acquisto delle pratiche e delle dottrine che gli schiudevano quei nuovi campi dei quali la sua ardente natura lo spingeva alla ricerca.
Dall’esame della pubblicazione del signor Hildebrand emergono tre fatti distinti:
1. Che le fibule settentrionali si distinguono da quelle dei popoli meridionali particolarmente, per ciò che mentre i primi utilizzano soltanto il meccanismo dei singoli pezzi, i secondi invece traevano partito dalla elasticità del metallo, e rendevano più sicuro il fermaglio, obbligando la punta dell’ago a rimanere nella scanalatura che le era appositamente preparata.
Indipendentemente da qualsiasi considerazione estetica riesce da questo, che lo spirito di osservazione e l’ingegno di applicazione fosse più valido in coloro che sapevano trarre maggior profitto dalla materia che avevano fra mani, utilizzandone tutte le qualità.
Si potrebbe anche argomentare sulla procedenza di quest’arte nuova, richiamandosi alli graduali perfezionamenti che dal semplice conducono al complesso; ma il novero di fatti non è ancora tanto ricco e le serie cotanto disegnate, da consentire una così importante soluzione.
2. Che il gruppo di Hallstadt e quello ungherese rappresentano la cumulazione di talune delle forme settentrionali, colla applicazione del principio dell’elasticità che domina interamente fra le fibule meridionali.
L’attorcigliamento del filo di metallo, che nella fibula (fig. 14 della Tav.) del gruppo settentrionale costituisce un ornamento, e ripetuto anche in quella d’Hallstadt (fig. 15), con questo, che mentre nella prima l’ago è libero, nella seconda invece risulta dalla continuazione di quella stessa spirale dalla quale ripete una parte della sua elasticità.
3. Che nei trovamenti di Hallstadt si vede una fibula della forma precisa di quelle che con varie dimensioni ed eleganze diverse sono pur tanto frequenti negli avanzi dell’età del Bronzo in Italia.
Sarebbe questo adunque il punto di contatto di due civiltà che muovevano in senso inverso, ovvero sarebbe questa la zona in cui la civiltà settentrionale sotto all’ influenza di nuove genti venne a prendere nuovi aspetti, a preporsi nuovi problemi ed a risolverli?
Ecco un’altra parte della questione che mi son già prima proposta, ed alla quale non saprei rispondere che alla stessa maniera.
Prima di muovere più innanzi è interessante di ravvisare la posizione geografica di Hallstadt. A piedi del Dakstein, sul bacino del lago omonimo, attraversato dalla Traun, che dopo un corso abbastanza lungo va a gettarsi nel Danubio in faccia di Steyeregg, esso appartiene totalmente e senza eccezione a quei versanti e partecipa al movimento fisico e morale di quella zona.
Per arrivare ai versanti italiani bisogna varcare la grande vallata dell’ Enno e quella della Drava, bisogna oltrepassare questo giogo del Dakstein, che novera delle altezze di oltre ad 8000 piedi parigini, quali l’Hoch Orn, lo Scheicher, il Donnerkogel e fra le minori il Gjad-stein, e pur battendo la strada postale d’oggidì bisogna attraversare Aussee alta dal livello del mare oltre a 2500 piedi.
E se tante difficoltà si presentavano agli abitatori del Salzkammergut per scendere al mezzogiorno, ben altrettante si affacciavano a coloro che dalla regione alpina del rame e dello zinco volevano risalire al settentrione. La Valle del Cordevole, in cui i giacimenti d’Agordo, mette ad Andrazza e poi a dedali montani di una asprezza quasi impervia: la Valle del Piave, in cui l’Argentiera, nel suo valico più basso pella Valle del Boite per condurci ai versanti della Drava ne obbliga a superare il partiacqua di Ospitale ad oltre 4000 piedi.
Non furono quindi le facili comunicazioni quelle che accomunavano le forme degli oggetti ordinarii della vita degli abitanti delle sorgenti della Traun con quelli delle Alpi retiche e pennine.
Nè potrebbesi ammettere che costoro arrivassero nei versanti del Danubio e sulle pendici italiane, possedendo già l’arte del bronzo, mentre il solo decorso di tempo necessario alle singole operazioni per arrivare a queste vette, non come viaggiatori, ma come primevere immigranti, avrebbe bastato a modificare abbastanza profondamente la forma degli utensili per escludere quei ravvicinamenti che fino ad ora si accennano e che in appresso risulteranno precisi.
Tanto se si voglia che questi immigranti venissero risalendo il corso del Danubio e dividendosi nelle grandi arterie confluenti dell’Enno e della Drava, quanto se si supponga che siano proceduti risalendo il Reno e valicando i partiacqua suoi e quelli dei suoi confluenti, resterà sempre che tutto ciò si dovesse compiere in un lungo volger di secoli, e che quindi le primitive conformità dovessero subire quelle modificazioni che sono connaturali al rilassamento dei vincoli originarii, alla affermazione della propria individualità, ed alla apparizione di nuovi bisogni.
E che d’altronde quest’arte sia sorta mentre quelle genti erano già assise nel centro dell’Alpi, risulterebbe da ciò che le tombe di Vadena, pubblicata dallo Sulzer e costruite nello stesso modo delle bellunesi; contenevano dei vasi cinerarii di terra cotta, mentre nelle accennate congeneri si trovarono quei vasi di bronzo dai quali sarà fatta parola.
A che si tratti dalla stessa gente renderebbesi probabile, se non certo, quando si badi che nel casco di bronzo di Negau, stanno scritta della parole in caratteri etruschi e sulla fibula esaminata dal conte Giovanelli e sopra una delle pietre cha componevano le celle sepolcrali di Vadena furono trovate delle parole scritte in lettere etrusche.
Nella valle bellunese quantunque siasi appena fatto il primo passo in quest’arduo sentiero, tuttavia emergono di già delle cose molto interessanti e tali da segnare degli stadii assai diversi nell’arte di lavorare il bronzo.
Presso il sig. Alpago nob. Giuseppe e presso il conte Miari Carlo si trovano delle figurine di bronzo che si riportano alla infanzia dalla imitazione; ma presso il primo si trova una fibula dello stesso metallo, d’un lavoro che difficilmente oggidì potrebb’essere più elegante e finito, mentre presso il secondo si può vedere un Giove in bronzo, d’arte assolutamente arcaica, alto circa una spanna, e perfettamente conservato.
Questa statuetta trovata nell‘ aperta campagna sul colle di Giamosa, a quattro chilometri da Belluno verso ponente, è di una grande bellezza, e l’armonia generale, e la riproduzione del nudo, sono indizio d’un artista che in altro tempo avrebbe potuto prendere un posto molto distinto.
Il braccio sinistro, che porta la clamide, fu trovato separato dal busto e separatamente fu anche fuso, quantunque non si possa raccogliere se ciò avvenisse per una inesperienza negli artifizii della fusione, o per una qualsiasi altra intenzione che sfugge allo osservatore.
Lo stesso palstaab della valle Falcina, messo a confronto con un altro del Cadore, addimostra non solo due lavoratori differenti, ma precisamente due stadii diversi e due punti di partenza affatto disparati, poiché mentre nel primo tutti i dettagli sono curati coll’amore di un artista, nel secondo invece sono disposti con quella semplicità disinvolta di chi non annette veruna importanza a improntare di qualche cosa di particolare l’opera propria.
La confluenza dell’ Ardo, che parte dal centro del Serva, è segnata anch’essa da due di queste punte, sull’una delle quali sta Belluno, essendo l’altra denominata l’Anta,
L’Anta, o il sasso dell’Anta, retrocedendo verso alla sua base prende il nome di Baldinino dagli avanzi di un fortilizio, le cui fondamenta furono rinvenute non molto tempo addietro e, ancor più addentro verso le prime elevazioni del monte Serva, trova il villaggio di Caverzano.
Fra questo villaggio e la sponda dell’Ardo resta il podere Zanussi, che occupa un largo tratto di piano e un bello spazio della riva ridotta a coltura.
La vecchia strada di Fadalto passava più accanto che non passi oggidì al massiccio del Serva, ed è tradizione che, lasciando da parte Belluno e varcando l’Ardo nel punto più ristretto del pittoresco suo corso, si dirigesse per Bolzano e Tisoi nella valle del Cordevole per giungere ad Agordo con risparmio notevole sull’ odierno percorso.
Questa stessa tradizione annota che sopra una delle pendici del Serva in prossimità a questo antichissimo sentiero si elevasse l’antica capitale del territorio, prima di Belluno, dove oggidì trovansi i casolari di Sala e dove effettivamente delle tombe con oggetti dell’epoca del Bronzo furono rinvenute.
Questa tradizione riporta, che un po’ più in alto sullo stesso monte e più addietro di Caverzano, in un sito alpestre e disagiato, a San Michele da Ross, perdurasse lungamente un rinomato mercato di animali che non avrebbe potuto originariamente essere fermato se non da accentramenti di popolo diversi da quelli di oggidì e da una linea di comunicazione diversa dall’odierna. Quindi la posizione di Caverzano sarebbe stata importante, poichè essa avrebbe padroneggiato questo passaggio e sarebbe stata favorita di preziose opportunità per scambi e commerci.
La presenza di varie civiltà d’uomini, nella breve cerchia di questo villaggio sarebbe indicata dalla memoria di cadaveri assisi e cadaveri distesi che si trovarono in tempi ed in circostanze che non ho potuto accertare.
Cosi tutta la parte meridionale di questo monte, che costituisce il cuneo delle due valli Cadorina ed Agordina nella Bellunese, viene ad essere contrassegnata dalle traccie di quest’ epoca così ricca ed interessante.
E non sarebbe uno slancio di fantasia il credere che qui dovesse compiersi lo scambio dei prodotti minerarii dell’ argentiera discendenti per la Piave e la valle di Longarone con quelli della valle del Cordevole, che diffondevano i prodotti d’ Agordo, ond’e che il mercato di San Michele da Ross non sarebbe stato che l’ultimo bagliore di una splendidezza che passava e d’una vitalità che aveva avuti dei giorni poderosi.
Definito ciò che spetta alla collocazione del podere Zanussi, passo a descrivere il sito in cui furono trovate le tombe, e mi dispenserò da molti dettagli che fanno parte di una pubblicazione più speciale, volendo in questo studio cercare di preferenza tutti quelli argomenti che valgano a constatare la presenza di una linea di rapporti ed a giustificarla nel modo migliore che allo stato delle mie poche cognizioni sia consentito.
L’alta sponda dell’ Ardo accidentata nelle più varie ed ammirevoli guise, e divisa presso al podere Zanussi in due grandi scaglioni, e nel ripiano fra l’uno e l’altro a poco più di 5 metri dal piano superiore, nello scavare una fossa per piantarvi delle vigne furono scoperti circa dodici di questi depositi mortuarii tutti identici, quanto ai materiali adoperati e quanto alla disposizione di essi.
L’arenaria grigia, verde e giallognola, che in quel territorio spessissimo affiora al suolo, divisa in strati varii di grossezza e di resistenza, fu usufruita dai seppellitori di quel tempo, che dopo aver rozzamente adattati dei pezzi, posandone alcuni nel senso della loro grossezza ad angolo retto, chiudevano il vano per tal modo costruito con un altro e più largo pezzo della stessa pietra che serviva di coperchio.
A Marzabotto ed a Villanova si trovarono dall’illustre Gozzadini delle tombe di conformazione identica a queste ed a quelle di Vadena che ho già indicato.
L’interno di questi sepolcri pel lungo infiltrare delle acque e pel depositare delle sottili materie condottevi era tutto invaso dalla terra, senza però che, in generale, si avesse avuta a rimarcare qualsiasi modificazione sopraggiunta per scoscendimenti del suolo.
Anche la profondità di un metro circa, a cui trovaronsi questi tumuli pella disposizione del terreno, non può ritenersi mutata, mentre un piccolo movimento della massa terrosa avrebbe con tutta facilita generata la discesa a valle di tutta la zolla che copre quella ripida china.
Ho esaminate le pietre tumulari, ma non ho potuto scorgere in esse nè alcuna regolarità di adattamento, nè alcun segno che valesse ed equivalesse a scrittura.
Quella gentilissima ed intelligente che è la signora Lucia Zanussi-Buzzatti si prestò del suo meglio a ricostruire mentalmente tutti gli incidenti della scoperta, affine di rispondere al desiderio che le veniva addimostrato e fornire il maggior possibile corredo di notizie.
Da essa seppi che nell'interno di queste celle mortuarie i vasi di bronzo cinerarii erano in vario numero e contenevano oltre alle ossa carbonizzate ed alle ceneri, anche varii oggetti di bronzo, e che la difficoltà di raccogliere quelli che si sono sottoposti quindi allo studio dipendette particolarmente dalla lotta colla avidità contadinesca che sperpera ogni cosa pel più insignificante corrispettivo.
In casa di questa signora, vidi parecchi di quei vasi che ho disegnati nella mia pubblicazione intitolata: Avanzi preistorici nel Bellunese, dove anche ho parlato dei ritrovamenti di questa medesima epoca fatti nella valle del Mis, nel bacino Iacustre della Turriga ed a Crodola.
Ho disegnato nella Tavola al N. 2 un ornamento degli aviti bellunesi, che trova un singolare riscontro nel N. 1 della stessa Tavola trovato in Hallstadt.
Disegnai al N. 4 della Tavola un ago discriminale della cittadella del Salzkammergut ed al N. 3 il corrispondente del cimitero del monte Serva.
Al N. 8 della Tav. riprodussi un ornamento di bronzo delle tombe bellunesi, che è identico al pendente di braccialetto N. 9, rinvenuto nelle tombe di Hallstadt.
Ho segnate ai N. 5, 6, 7 (Tar. stessa), quelle fibule e frammenti che mi avviarono a questi confronti ed ai N. 10 e 11 quelle che presentano dei rapporti abbastanza prossimi.
Al N. 16 ed al N. 17 si trovano il gallo e la gallina che figurano nei pendenti bellunesi e si trovano riprodotti nelle ornamentazioni di Hallstadt.
Che se queste costumanze non valessero ancora ad acquetare le severe esigenze della critica, si potrà facilmente esibire qualche ulteriore e più importante ravvicinamento.
Difatti la comunanza della pratica d’ incenerazione dei cadaveri viene ad essere collegata anche dalla forma e dalla materia dei vasi in cui queste ceneri venivano deposte.
Vedasi il vaso disegnato al N. 13 della Tav., e s’avverta che della stessa forma e materia collo stesso numero di manichi e di righe son quelli che furono trovati in Hallstadt.
Che se la tomba particolarmente in quei tempi ed in quella civiltà, per tutto ciò che me addimostrano i monumenti raccolti e le pratiche delle genti che vivono ancora oggidì in condizioni affini, riproduce un largo aspetto della vita morale, se gli oggetti d’adornamento personale raffigurano buona parte delle consuetudini, se l’arte di costruire, il genio di adornare, constatano lo svogliersi dell’intelligenza, io spero che mi si vorrà concedere la importanza delle conformità rilevate e la convenienza di affermarle per guisa che fornissero argomento di ulteriori studii e raffronti.
Non ommisi di appuntare nella breve Memoria già prima citata, che nell’Alta-Chiusa, che é un tratto Bellunese della valle del Boite, si parla un dialetto reto-latino o romancio, molto conforme al reto-latino friulano ed a quelli assolutamente congeneri di Badia, Fassa e Gardessa e dell'Engheddina; che tutte le parlate del Bellunese non sono che altrettanti stadii del trapasso dal dialetto romancio a quello veneto, che nelle denominazioni territoriali i Tamarus, la Piave e Savassa potrebbero presentarsi al sig. Bertani pelle sue spiegazioni etrusco-sanscrite, i Resinego, Rezziò, Rasani, Toschian al signor Steub che seppe evocare ed aggruppare consimili elementi nel Tirolo, i Cugnach, Lantrago, Mujac, Alpago presenterebbonsi a designare quella traccia di immigranti che idoleggiava l'illustre Pictet, Caralte, Nemeggio, Quero, la Cicogna, la Sonna richiamerebbero gli studii del signor Houzé e la Mauria, il Comelico e l'Antelao accennerebbero a quella tradizione greca che segna tutto il pedemonte alpino dall'Istria al lago di Como.
La ricchezza di queste varietà risponde alla posizione geografica del Bellunese che separa i versanti della pianura del Po da quelli dei confluenti del Danubio.
Che se ebbimo a vedere i rapporti del Bellunese con Hallstadt, valga ancora che il modo di costruire le tombe è identico a quello constatato per Villanova e Marzabotto, dall'illustre senatore Gozzardini, che li secchielli cinerarii di bronzo (N. 12 della Tav.) rispondono ad altri trovati a Cassanego nel Bassanese, e ad altri (N. 13, Tav. stessa) trovati nel Bolognese e a quelli esistenti nel Museo di Napoli, che taluni degli ornamenti rinvenuti nelle tombe bellunesi furono riconosciuti identici a quelli che trovansi nei musei di Perugia e di Napoli, che la fibula N. 11 della Tav. risponde ad altre che io stesso raccolsi nel Maceratese ad Urbiraglia, ed il chiarissimo conte Armaroli-Tambroni, a Matelica, e che il bellissimo palstaab della valle del Mis non è che il modello più perfetto di quelli dell’ Appenino romano, illustrati dal professore Pigorini.
Devesi aggiungere a codesto, che il cinturone che cinge le reni dei lottatori etruschi del bassorilievo di Castelvetro pubblicato dal conte Da Schio, fu trovato in bronzo attorno agli avanzi mortali discoperti in Lozzo di Cadore, e che l’impronta dell’embrice di Belluno porta delle lettere etrusche certamente fra le più belle e regolari che si conoscano.
In questa valle Serpentina il dualismo dei centri economici, intellettuali, ecclesiastici, rimonta più innanzi che non arrivi la storia, e mentre il nome di Belluno colle sue vicinanze di Baldeniga e Baldinicco sono in contraddizione colle lettere etrusche del suo embrice, avressimo dirimpetto la tradizione etrusca di Feltre nell’assoluta deficienza di qualsiasi monumento che valga a suffragarla.
La perduranza della lotta fra gli autoctoni, che difesero pertinacemente il loro greppo montano, è affermata da una tradizione che cercai di spiegare nel citato libriccino, ma ciò che ora aggiungo si è che la mancanza di canzoni e ritmi popolari in questa regione, viene appunto a designare la lunghezza di questo periodo di ostilità e di faticosa gestazione delle forme di transizione che dovette impedire a questa gente di mantenere e svolgere le loro individue tradizioni.
Abbiasi ancora, che questa mancanza di canzoni e ritmi popolari nel Bellunese è un fatto che domanda spiegazione, particolarmente se si consideri alla diffusione immensa, al canto e ai ritmi popolari del contiguo Friuli, dove non c’é roccia cosi solinga o casolare tanto deserto, da non echeggiare di queste vergini emanazioni d’un arte inimitabile.
Un’altra volta mi sono portata innanzi la questione se possa ammettersi facilmente che il nuovo popolo che contrastò agli Etruschi la Lombardia, e separò il loro triangolo di Padova, Mantova ed Adria, dalla Toscana, dall’ Umbria e dal Piceno sia stato anche cosi ardito da squarciar la sbarra Berica e dilagar la Venezia ed il Friuli; ma gli elementi per sciogliere questa difficoltà sono ben lungi dall’ essere raccolti, nè io mi crederei da tanto di segnare una prima linea nel difficile arringo, avvertendo che non tutti gli elementi, che potevano giovare all’uopo, siano stati presi nella necessaria considerazione.
Un centro mineralogico, quale codesto, doveva allora avere una importanza quale oggidì non si potrebbe di leggeri raffigurare, epperciò il possesso di questo cuneo del Monte Serva, che comanda alle due Valli metallifere del Cadore e dell’Agordino, non occorre un soverchio d’argomentazione, per dimostrare che fosse avidamente agognato e seriamente difeso.
E poichè in mezzo a tante conformità ho preso a discorrere d’una differenza, mi sia consentito di far appunto ben anco di un’ altra.
Le scoperte del signor Schliemann nella pianura Trojana circa all’ epoca della pietra, vengono a presentare tali nuove circostanze da suscitare al più alto grado la curiosità, ed in pari tempo a constatare un certo numero di nuovi fatti dei quali bisogna tener conto.
Resterà da precisare se tutto ciò ch’egli ebbe a trovare fra gli utensili dell’età della pietra dovesse classificarsi nella stessa categoria, ma quandanche una qualche distinzione abbia ad essere fatta, bisognerà sempre convenire che la presenza di un culto comune nella pianura trojana e nella penisola italiana, viene a portar un novissimo contingente alla tradizione d’immigrazioni trojane in Italia riferito dai più autorevoli fra gli storici latini.
Ora negli avanzi retici e bellunesi non ho avvertito alcun oggetto che richiamandosi a questi tempi potesse essere ritenuto rappresentare o rappresentasse questo simbolo della fecondità della vita e della rinascenza, e negli avanzi italiani dell’epoca della pietra non so che siasi trovato ancora alcun Fallo, alcun Priapo.
E come va adunque che senza poter risalire alla Etruria montana questa religione, questa pratica, questa filosofia, abbia potuto invadere tutta l’Italia e conservavasi quindi fino alla caduta della società, dell’Impero e del culto di Roma?
Se veramente era il culto degli uomini della pianura trojana a quell’ epoca, come va che non apparisce presso di noi se non all’età posteriore, e se veramente la caduta di Troja avvenne all’età del Bronzo, se e vera la tradizione istriana cotanto accarezzata dall’illustre Kandler, è ben mirabile la potenza di questa nuova idea, che pel solo contatto delle genti acquista tanta forza da invadere tutta l’Italia etrusca e cominciar la serie infinita di questi filosofie che dall'Oriente trasportano in Italia i profughi di quell'ardente paese?
Nè certo io credo si possano confondere i falli colle situle cinerarie, non avendosi un sufficiente argomento per ammettere che alla montagna la medesima religione avesse accettata quella parziale espressione, che tanto più positivamente risultava dalla simbolica delle altre regioni italiane.
Ciò vale a contraddire coloro, i quali pur accettando nei Reti una famiglia etrusca, vollero quindi richiamarli a quel solo tempo in cui fossero stati scacciati dalla gran valle del Po dalla conquista gallica, facendone una tribù di rifugiati, anzichè la culla ed il serbatojo alpino di quel gran popolo, il quale dopo invasa o tenuta quasi tutta l'Italia, diffuse la semente delle istituzioni civili, di splendide arti e di industrie prodigiose.
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Pella Venezia, l'età della pietra è fino ad ora debolmente accennata dall'ascia di calce-cornea del chiarissimo dott. Cumano di Cormons, dalle punte di freccia di san Vito del Friuli, dalla stazione di Fimon illustrata dal Lioy e dalle stazioni del Benaco; ma le scoperte del Cappellini nel Bolognese, quelle del senatore Scarabelli nell'Imolese, la frequenza di prodotti neolitici a Montecassiano e Urbisaglia e Pieve Torina nel Maceratese, la ricchissima collezione di selci lavorate, fatta da Costanzo Rosa nella valle della Vibrata dell'Ascolano, quelle delle grotte di Pulo presso Molfetta e gli arnesi archeo-litici egregiamente descritti dal cav. Ulderico Botti, provenienti dalle caverne del capo di Leuca, fanno supporre che la pianura friulana e la costiera adriatica delI'Appenino possano, mediante una cura più assidua e delle ricerche sistematicamente seguite, essere collegate fra di loro mediante gli irrefutabili documenti dell'opera dell'uomo.
Così del pari potrà emergere da codesto, la continuazione di quella religione del Fallo, che per noi s'arresta all'Euganea, fino a divisarne la origine od almeno a designarne la procedenza.
La spada di bronzo di Marendole, taluni vasi del Cattajo e la situla cineraria di Cassanego verrebbero a congiungere li trovamenti bellunesi colle epoche correlative dell'Appenino, ed a mostrare la necessità di annodare più solidamente questa linea, esumando tanta copia di materiali da accertare ciò che fino ad ora non è che indicato.
Ma anche qui bisogna ricorrere ad una speranza e credere che il crescente movimento di questi studii nelle altre regioni, si comunichi anche alla nostra.
Venezia può avere la missione di avverare ciò che fino ad ora non è che un supposto, fondato sopra ricorrenti analogie che cioè, al movimento di occupazione lacustre tenesse appresso un analogo insinuarsi di nuove genti negli arcipelaghi Iittorani.
Tanti e così interessanti problemi possono giustificarne il coraggio che mi sono assunto di formularli e la confidenza di vedere intorno ad essi raccogliersi copiosi elementi, fortunate indagini e fruttuosi studii.
Macerata, 14 gennajo 1871
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Estratto dal vol. I, ser. IV degli Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti.