Lo scritto di Giovanni Arduino qui proposto, estratto dagli Atti della Società Italiana di Scienze Naturali, TOMO III, Milano - 1789, consiste nella SECONDA PARTE dell’articolo e tratta delle miniere di ferro piombo, zinco e argento del Cadore, dello Zoldano e dell’Agordino; la trascrizione in caratteri ‘non settecenteschi’ è a cura del Gruppo ARCA, e ne lascia però intatto il testo.

La prima parte dell’articolo è stata pubblicata nel NOTIZIARIO ARCA numero 11 del Maggio 2004:

… Nei monti del distretto di Cadóre, situato al ponente della Carnia, e alla stessa contiguo, sonosi coltivate miniere di ferro, e di piombo, fino circa alla metà del corrente secolo. Quelle del ferro escavansi in Chiersè di Cibiana, in Crot, e nel Col di Santa Lucia; e per la loro fusione vi furono tre forni: uno in Cavril, uno nel comun di Borca, ed il terzo nel distretto di Zoldo nel Bellunese. In questo medesimo distretto si è anche scavata, per un lungo tempo, una miniera di ottima galena nella valle Inferna, da cui estraevasi piombo così puro e buono quanto quello tanto pregiato di Bleyberg della Carintia.

Fodine di piombo sussistono ancora oggidì in attualità di lavoro utile nei monti Cadorini della Comunità di Auronzo (Ebrontium) cioè nei luoghi denominati Argentiera, Pian di Barco, e Grinia. Il materiale piombifero è galena, o sia piombo dallo zolfo mineralizzato; e vi si trova congiunta in copia grande giallamina (lapis calaminaris), la quale è il principale movente dei lavori che vi si fanno, doviziosa essendo del terreo principio, o sia calce dello zinco, o zingo; e quindi ottima e molto utile per la conversione del rame in oricalco, che diciamo ottone, o meno impropriamente latone; e ciò con insigne aumento del di lui peso.

Gl’imprenditori sono Tedeschi: le fodine di Pian di Barco, e di Grinia appartengono, in affitto, agli Eredi Kopsgutter, e la loro giallamina conducesi alla fabbrica di latone a Schwatz nel Tirolo. Quelle dell’Argentiera sono affittate al Sig. Giuseppe Kaltner di Salisburgo, e la giallamina delle di lui cave trasportasi alla sua fabbrica di latone da essa città poco distante. Egli, trovandosi qui in Venezia, mi disse che ogni condotta di detta sua giallamina, col mezzo dei muli, dall’Argentiera alla di lui fabbrica Salisburghese, viaggio pel quale impiegansi tredici giorni, viengli a costare quattro fiorini il centinajo di libbre: prova evidente della molta importanza di siffatto minerale, di cui abbondiamo senza che qui uso alcuno se ne faccia.

Un mio Amico pratico di quelle montagne m’ha recati saggi di giallamine da lui trovate in più luoghi delle medesime, e particolarmente nelle appartenenti al capitanato di Zoldo. Trovansene pure, benchè per lo più sotto altre forme, cioè di blendi, nei monti minerali Vicentini, e nelle metallifere montagne Bresciane e Bergamasche.

Una vena di galena ricchissima di piombo coltivavasi da’ Tedeschi, già molti anni, nel monte Giao della Comunità di San Vito, dove il distretto di Cadóre confina col Tirolo: e nei monti dell’Agordino Capitanato altra vena piombifera è stata, non ha guari, scoperta la qual è una galena di minuta, granulosa, e d’oscura cristallizzazione, con mescolanza di minera di ferro di forma arenosa, molto fosca e retrattoria.

Nello stesso Agordino Capitanato è la Valle Imperina, in cui sono le profonde e vaste fodine, e le fonderie di rame, note come le Miniere di Agordo. Il minerale che vi si escava, e da cui traggesi zolfo, vetriuolo, e rame, è pirite ferreo-cupreo-sulfurea, generatasi in copia grandissima sotto essa valle, tra le sotterranee parti di monti di diversa natura; uno al sud della stessa, di sasso calcario rozzo calcareus rudis, l’altro al nord, di schisto corneo fissilis corneus, Horn Schieffer de’ Tedeschi ( Waller. System. Moneralogicum). Anticamente, oltre ai minerali che somministravano solamente rame, se ne scavavano anche di quelli che unito al rame davano argento, ed avevansi le loro proprie vene; come rilevasi con indubitabile certezza dalle Memorie esistenti nell’Officio del Magistrato Eccellentissimo sopra le Miniere, e specialmente dal Libro, o sia Processo segnato A. e N°16. in cui sono scritti gli accordi, le controversie, litigi, e atti corsi nell’Officio Minerale di Agordo, tra li diversi possessori di quelle antiche Cave, dalli 9 Febbrajo dell’anno 1568 fino alli 20 pur Febbrajo del 1570. Nella carta che porta il numero 1218 si legge in una scrittura del Magnifico Jacopo di Priuli contro il Magnifico Angelo Molin, che avanti la grande inondazione e ruina accaduta nell’anno 1567 erano state cavate e cernite vene di argento dalla buca di San Fiorian, la quale nel susseguente anno 1568 chiamavasi Sant’Agnese.

Nelle carte segnate 1226 e 1227 sta registrato un Proclama del Vicario Generale delle Miniere per l’Eccellentissimo Magistrato sopra le Acque, pubblicato in Agordo li 18 Dicembre di detto anno 1568, col quale, oltre alle regole e discipline ordinate pel sistema generale di quei lavori minerali, e dei boschi ecc., vi si comanda che tutto l’argento debba passare alla Zecca, con queste precise parole. “ In esecuzione delle leze et parte sopra ciò disponente, inerendosi a più Proclami in questo fatto, si notifica a cadauna persona sia chi si vogli che debbano portar, o ver mandar tutti li arzenti che trazerano dalle miniere imediate quelli affinati in Venezia in Zecca; siccome sono per ogni debito e rason obligati in la bolletta del Spett. Vicario sotto tutte le pene etiam di contrabando in dette leze et parte contenute”.

In una scrittura poi, registrata nelle carte 1244, e 1245 del Magnifico Antonio da Molino, Possessore di alcune di quelle Cave, contro una domanda di M. Andrea Barpo, tra varie altre particolarità, gli dice “Quanto alla seconda parte di esso Mandato circa corer delle vene separatamente li dico che le vene che si cavano nella busa di S. Felice sono vene d’arzento, et quelle che si cavano nella busa di Sant’ Agnese sono da rame, le qual a niun partido se dieno mescedar, ne confonder insieme, ecc.”.

Da’ Capitoli proposti li 6 e 8 Febbrajo dell’anno 1570 nel Vicariato Minerale di Agordo da Pietro Buono ed Emiliano fratelli de’ Pietroboni dello stesso paese; e dalle deposizioni con giuramento sopra li medesimi di quattordici testimonj a tale oggetto legalmente citati, risulta, come leggesi nel sopraddetto Processo dalla carta 1362 fino alla segnata 1370, ch’essi Pietroboni possedevano molti carati dei minerali che si estraevano dalle Cave nominate S. Bartolomeo, S. Silvestro, S. Marco, S. Felice, S. Agnese, S. Rocco, S. Sebastiano, S. Anna, e S. Maria; dalle quali fu stimato potersene estrarre annualmente circa settantaduemila misure formanti, a un di presso, centoquarantaquattro mila centinari, ciascuno de’ quali dava in quel tempo solitamente dalle tre fino alle cinque libbre di rame raffinato. Vi si legge pure che nella cava S. Marco, ed in altre diverse delle prenominate eranvi filoni di minere di rame e argento da potersene cavar annualmente diciottomila misure; cioè da trentasei mila centinaja di libbre all’incirca.

Tanto numero di fodine, e sì copiose di minerali, dove di solo rame, dove di rame e di argento, sotto la predetta valle, e monte dell’Imperina, e montagna di Gona, ed anche nel canale del Mis, coltivate in que’ tempi da molti particolari nominati nel prefato Processo, col decorso di anni restarono, non so per quali strane vicissitudini, onninamente abbandonate, e se n’è perduta la traccia, rispetto a quelle d’argento, in modo tale, che i tentativi fattivi in questo secolo per rinvenirne le vene sono riusciti vani e di pura perdita.

 

A cura del Gruppo ARCA

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